morto fidel castro

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cuga
view post Posted on 26/11/2016, 08:18




ai posteri l'ardua sentenza.....cmq RIP.
 
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alphonse
view post Posted on 27/11/2016, 22:29




Figura assai controversa. Riposi in pace.
 
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view post Posted on 28/11/2016, 10:48

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Nel bene e nel male ha fatto la storia del secondo novecento. non ho mai capito fino in fondo se la storia della spiata ai boliviani sul Che fosse vera.
 
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R.E.M.
view post Posted on 28/11/2016, 11:39




Nel bene e nel male un pezzo di storia!
R.I.P.
 
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view post Posted on 28/11/2016, 23:40

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www.avvenire.it/mondo/pagine/mina-...del-a-bergoglio


Aggiungo anche questo...credo un lavoro onesto del giornale dove lavoro...abbastanza imparziale...

Il rivoluzionario e la sua ombra
Giorgio Ferrari
domenica 27 novembre 2016
L’ombra di Fidel Castro, forse la più longeva controversa e acclamata personalità politica del Novecento assieme a Winston Churchill, ci impedisce – e nel momento del rammarico e del cordoglio, del dolore umano e politico e per taluni del giubilo ciò è più che comprensibile – di separarne con chiarezza il destino terreno dal futuro di Cuba. Quella Cuba che cinquantasette anni prima aveva contribuito in prima persona a forgiare: troppo conosciuta, indagata, vivisezionata è la sua figura, troppo famigerate le sue imprese, le sue esternazioni, le sue capriole ideologiche, troppo perfino quell’oblio che l’inverno degli ultimi anni di vita gli aveva assegnato, relegandolo – quasi una sorta di immateriale simulacro – al ruolo di anziano padre nobile più che in quello di Líder Máximo.

Per dieci anni, dal momento in cui aveva passato il bastone del comando al fratello Raúl, il vecchio jefe ha assistito silenzioso e pieno di dubbi al tramonto, al lento sfibrarsi, allo snaturarsi di quell’orgogliosa diversità che solo il laboratorio cubano sembrava in grado di far germinare, tanto da accreditarsi per decenni come fascinoso modello internazionale di una via caraibica al comunismo, non allineata ma rivoluzionaria, critica sia dell’imperialismo yanqui sia infine di quello sovietico, una terza via comunque comunista che era riuscita a sedurre intellettuali e politici di tutto il mondo.

Purtroppo il pedaggio che i cubani hanno dovuto pagare per quel sogno si è intinto nell’acre sapore della povertà endemica in un’isola assediata per cinque decenni dall’embargo americano, dalla quale si tentava tragicamente di fuggire e dove assieme all’eccellenza del sistema sanitario e dell’istruzione obbligatoria (mai eguagliate in nessuna delle contrade latinoamericane) permaneva ferreo il controllo poliziesco di cui ogni regime non democratico – e quello cubano è ancora un regime non democratico – non può fare a meno. Non sapremo mai esattamente quanti sono stati i dissidenti imprigionati e morti nelle carceri di Fidel Castro, quanti i cristiani intimiditi ed emarginati, quanti gli omosessuali lasciati languire in cella, quanti gli artisti, i poeti, gli scrittori costretti all’autocritica, all’abiura, alla delazione.

Per questo, quando i fiammeggianti stendardi delle celebrazioni e del cordoglio cesseranno di sventolare, la vera domanda che ci dovrà porre è una sola: che ne sarà di Cuba? Quesito al momento irrisolvibile, perché contiene quell’ostacolo grande come un macigno di nome Raúl Modesto Castro Ruz. Chi sperava che il fratello oggi ottantacinquenne di Fidel divenisse protagonista del deshielo, è andato incontro a una serie di delusioni: sotto il pugno di ferro di Raúl (da sempre considerato non senza ragione più intransigente e giacobino del fratello) la giovane nomenklatura che si immaginava potesse prendere le redini del Paese è stata impietosamente esautorata, i possibili delfini soffocati nella culla, le liberalizzazioni economiche promesse non sono andate molto al di là della concessione di un permesso di affittare camere o di cucinare pollo con il riso per i turisti (attività da sempre fiorente nonostante il divieto formale del governo). Talvolta la rigidità di Raúl ha fatto sembrare Fidel un campione di moderazione. Perfino il dialogo avviato con il 'nemico americano' non è opera sua: sono occorsi tre viaggi papali (Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco) e la persistente e silenziosa mediazione vaticana perché Washington e L’Avana si avvicinassero dopo mezzo secolo di reciproca sordità. Appartato ma sentenzioso e vigile, Fidel rimaneva nell’ombra a consigliare, suggerire e difendere caparbiamente la sua rivoluzione. Fino all’ultimo, come si è visto. E anche qui sta la sua corrusca grandezza.

Ma non facciamoci illusioni. La transizione sarà ancora molto lunga e tormentata. Il castrismo non è affatto estinto, i vecchi vizi di un potere decrepito ma feroce quanto quello che il suo amico Gabriel Garcia Márquez immaginò nel maestoso affresco dell’Autunno del patriarca resistono come una tigna inestirpabile. Solo quando anche Raúl si congederà davvero dalla vita politica cominceremo a capire quale sentiero prenderà Cuba e cosa sarà del suo popolo pieno di dignità e di orgoglio, che – tutti dovrebbero riconoscerlo – nell’ultimo mezzo secolo avrebbe meritato qualcosa di più.
 
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view post Posted on 2/12/2016, 20:08

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La ribellione non era Fidel, ma Ernesto "Che" Guevara
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“Fidel Castro è un uomo affascinante” mi disse una volta Susanna Agnelli, certamente non sospettabile di filocomunismo, che lo aveva incontrato a Cuba quando era ministro degli Esteri. E che lo fosse, affascinante, nessuno, nemmeno i suoi più irriducibili detrattori, può negarlo. Naturalmente questo non può assolverlo dalle sue colpe e dai suoi crimini durante i quasi cinquant’anni della dittatura e puntualmente documentati da quel grande inviato che è Fausto Biloslavo, molto filoamericano, forse troppo, che si rifà ai dati forniti dal Cuba Archive Project: 9.240 le “morti politiche”, 5.600 i cubani giustiziati, 1.200 quelli eliminati nelle esecuzioni extragiudiziarie, 8.616 i casi di detenzione arbitraria documentati nel 2015 e 2.500 nei primi due mesi di quest’anno. Poi c’è la repressione delle libertà individuali e in particolare di quella di espressione di cui hanno fatto le spese molti intellettuali cubani. Tutti i giornali della destra, nei giorni della morte di Fidel, hanno focalizzato l’obbiettivo su questi dati incontrovertibili. Peraltro non molto lontani dagli stessi crimini commessi dal generale egiziano Abd al-Fattah al-Sisi in soli tre anni e mezzo da quando prese il potere nel luglio del 2013 con un golpe militare (e un golpe si differenzia da una rivoluzione, perché questa ha bisogno dell’appoggio della popolazione o di buona parte di essa). Ma sui crimini di al-Sisi la destra e anche la sinistra (ricorderete la dichiarazione di Matteo Renzi che lo definiva “un grande statista”) non ha mai alzato un laio se non per il caso di Giulio Regeni che è solo uno dei circa 2.500 desaparecidos nell’era al-Sisi. Ma, si sa, l’Egitto è un alleato degli americani, come americano fu il sostegno al dittatore Pinochet e ai tanti altri dittatori sudamericani che gli tornavan comodi.

E’ stata poi pudicamente sottaciuta la situazione di Cuba prima che la Revoluciòn spazzasse via il regime di Fulgencio Batista che non era meno sanguinario di quanto lo sarà poi quello di Castro e che aveva fatto di Cuba un bordello e un Grande Casinò ad uso dei ricchi statunitensi. E allora si capisce facilmente perché poche centinaia di castristi siano riusciti a rovesciare in poco tempo il regime di Batista per ridare all’isola e ai suoi abitanti la propria identità.

Pochissimo invece si è parlato in questi giorni di Ernesto Che Guevara, il ‘numero due’ della rivoluzione cubana e il primo sul campo di battaglia. Di questo medico argentino, malato di asma che andò a Cuba per combattere per una causa non sua e poi, dopo pochissimi anni di potere come ministro dell’Industria e dell’Economia, vista l’aria che tirava nonostante qualche primo successo sul piano sociale che poi Castro rafforzerà con grande fatica a causa dell’embargo americano imposto all’isola ma grazie anche all’appoggio dell’Unione Sovietica, andrà a combattere in Bolivia per un’altra causa non sua e vi troverà, nel 1967, la morte in battaglia.

Il mito di Guevara è stato negli anni altalenante. Per quel che mi riguarda la prima volta che seppi di Guevara fu nel ’57 o nel ’58, non ricordo bene. A quell’epoca Guevara non era ancora un mito della sinistra tanto che il mio ‘incontro’ con il “Che” avvenne sulle pagine di Gente, il settimanale di Edilio Rusconi che di tutto poteva essere sospettato tranne che di pruriti rivoluzionari. Si trattava di un servizio fotografico. Mi ricordo in particolare un’immagine di Guevara a torso nudo sdraiato mollemente su un fianco sopra un lettino da campo. La mia fantasia di adolescente fu colpita dalla straordinaria bellezza dell’uomo. Nelle didascalie si rifaceva la storia di questo rivoluzionario che combatteva per l’ideale marxista dell’internazionalismo proletario. Il settimanale di Rusconi gli dimostrava simpatia. Lo interpretava infatti come un eroe romantico, un “cavaliere dell’ideale” in fondo innocuo. In quegli anni il mondo non era ancora completamente integrato, ‘globale’, come oggi. E quello che avveniva nella lontana Cuba poteva essere considerato con un certo distacco dai conservatori di casa nostra. Inoltre la contestazione giovanile era di là da venire.

Il ’68 cambiò completamente la prospettiva. Guevara, che nel frattempo era andato a morire in Bolivia, divenne il simbolo stesso della rivoluzione. Più di Lenin, più di Mao, più di Stalin, Ernesto Guevara, diventato definitivamente il “Che”, fu il mito del Sessantotto, almeno nella sua componente libertaria. Guevara invece piaceva molto meno ai comunisti ortodossi di casa nostra. I comunisti rimproveravano a Guevara una certa vaghezza ideologica (mi ricordo in proposito degli sprezzanti giudizi di Giorgio Amendola) e, soprattutto, il fatto che avesse abbandonato un potere che aveva appena conquistato. Al positivismo marxista la romantica rinuncia di Guevara pareva inconcepibile, blasfema, un segno di debolezza di carattere. Senza contare poi che Guevara, con il suo passare da una rivoluzione all’altra (ne aveva tentata una anche in Guatemala) sembrava incarnare troppo da vicino quella “rivoluzione permanente” teorizzata da Trotzky. E Trotzky allora era tabù per i comunisti che, nonostante il rapporto Cruscev del ’56, rimanevano profondamente, intimamente stalinisti.

Nel tempo il mito di Guevara si è andato perdendo a sinistra. I comunisti hanno continuato a guardarlo, e non a torto dal loro punto di vista, con diffidenza. I contestatori invecchiati, inseritisi nel frattempo nel sistema e diventati manager, imprenditori, direttori di giornali, radical chic, lo hanno relegato fra le loro debolezze giovanili.

Nel ventennale della sua morte Guevara fu oggetto di un inaspettato revival da parte della destra o, per meglio dire, della ‘nuova destra’. Inaspettato, ma non ingiustificato. Solo in superficie infatti Guevara è un uomo di sinistra. In realtà, col suo ardore per l’azione, è un dannunziano, un bayroniano, un esteta, un Oscar Wilde delle armi, un dandy della rivoluzione. E’ stato l’ultima incarnazione del mito dell’eroe romantico.

Oggi Guevara, a parte le sciocchezze dei gadget, è un uomo quasi dimenticato, tanto che proprio in questi giorni di celebrazioni o demonizzazioni di Castro e della Revoluciòn è stato ricordato solo di sfuggita. Ma per noi, che fummo anarchici e libertari nella nostra adolescenza, e lo rimaniamo, il “Che” è un mito che non rinneghiamo. Perché fosse di sinistra o di destra, o tutte e due le cose, o nessuna, il “Che” rimane un esempio, pressoché unico nel mondo moderno, dominato dal cinismo, dal realismo, dalla forza del denaro, di un uomo che non solo ha combattuto il potere ma lo ha disprezzato al punto tale da abbandonarlo per inseguire, pagando con la vita, nient’altro che un sogno.

Per questo in questi giorni preferiamo ricordare la rivoluzione cubana non nel nome di Castro ma nel nome del “Che”. “Hasta la vista, hasta siempre, comandante Che Guevara”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2016
 
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